domenica 15 dicembre 2013

Greenfield | Red Queen | 03.15 a.m.


C'è una parte di me che nessuno ha mai conosciuto. Che nascondo come si nascondono i cattivi segreti. Quelli di cui ci si vergogna.
Me la sento pulsare dentro e macerare come una carcassa.
Forse qualcuno, qui, ne ha sentito l'odore di tanto in tanto. 
Eppure metto su un sorriso, passo oltre, glisso con nonchalance lasciando tracce di profumo che non mi appartiene.
Ora vorrei capire che problema ho nel rimanere sola. E' passato un quarto di secolo e ci tengo a ricordarmelo, perchè mi sa che ogni tanto lo dimentico. Eppure perchè tutti mi rimangono incollati addosso? Come una di quelle piante carnivore ricoperte di resina e tutti gli insetti che si avvicinano ci rimangono imbrigliati, a questa roba collosa. Senza capire che agli altri questa roba collosa, possibilmente, fa schifo.
Devo spiegarmelo, come mai, ho questa roba collosa tra le dita, quando vorrei lasciarli andare.
Vorrei solo che mi lasciassero andare. Eppure i petali profumano e hanno il colore del cielo e tutti gli occhi che passano li guardano ammirati, un po' invidiandone la bellezza, ignorando che potrebbero schiudersi e divorarli senza che abbiano il tempo di rendersene conto.
Forse dovrei dire loro la verità. Forse dovrei dire loro che quando sorrido lo faccio per me stessa, per evitare che questa puzza trapeli troppo all'esterno. Forse dovrei dire loro che nessuno li salverà da quei denti acuminati, che quel mostro che si nasconde da qualche parte, qui, ogni tanto preme così forte per uscire che il dolore di trattenerlo è superiore a quello che proverei nel lasciarlo sciamare fuori come un'ombra.
Eppure tutti si aspettano tanto da me.
Tutti vogliono qualcosa da me.
E io sento costantemente questo vuoto. Questo inesorabile bisogno di riempirlo con i loro respiri e i loro fremiti ed ogni battito di cuore. Una fame insaziabile. Alimentare la bestia che cresce sempre più forte, sempre più impossibile da domare.

Eppure quelle facce sono tutte lì a guardarmi in attesa di una svolta.
Uno slancio di vita o il punto di rottura.

Del e il suo modo invadente di infilarsi tra le mie coperte durante la notte. Sotto pelle come una brutta cicatrice.
Alex e i suoi occhi accesi e materni, le sue labbra rosse sulle quali ho desiderato di perdermi almeno un paio di volte. Il misterioso istinto di protezione che provo per lei.
Zoe e il suo stupido vestito blu. I suoi racconti senza ne capo ne coda all'ospedale. Il suo ricordo sbiadito dal tempo. Dalla lontananza.
Petra. Qualcuno di importante, forse. Qualcuno che ho perduto. Lì a giacere sul fondo della memoria e bruciare in petto quando mi capita portarne a galla i lineamenti lontani.
Anya Krushenko e i suoi sorrisi insospettabilmente dolci. Un segreto e una tragedia condivisa. L'empatia. La gentilezza.
Nicolai e il suo fastidioso esser sempre quel che non potrò mai essere. Fare sempre quello che ci si aspetta che faccia e farlo meglio di come richiesto.
Geremia Parker e i suoi ultimatum. Margareta e i suoi silenzi-assenso.

[Tua madre è molto preoccupata per te, Abigail. 
Sai che fosse per me ti avrei già liberata dell'onta di portare addosso il mio cognome, ma tua madre è in ansia. 

Volevamo informarti che Nicolai ha avuto un bambino, si è sposato, tu non c'eri.
Non abbiamo tue notizie da mesi, dopo quello che è successo.

Consiglio vivamente di ritornare tra le righe, puoi ancora recuperare. Anya Krushenko sarebbe disposta a riprenderti in Blue Sun, ne sono certo. E' quello per cui ti sei sempre preparata, Abigail. E' quello che volevi e hai mandato tutto a monte.
Se non vuoi farlo per me, o per tua madre, almeno fallo per te stessa.
Cerca un riscatto, Abigail.
Io ho perso le speranze da tempo.


Nella speranza che tu non sia morta definitivamente, stavolta.



Distinti e cordiali saluti,

Ing. Geremia Parker.]


Si, papà.




domenica 27 ottobre 2013

Hall Point| Cella d'isolamento| 05.16 a.m


La cella di Hall Point è un buco spoglio, freddo. L'ennesimo in cui è stata costretta a soggiornare, contro la sua volontà. Nessuna finestra. Un neon, fastidiosissimo e accecante, perennemente acceso ad ogni ora del giorno e della notte. 
Che ore sono?- Se lo era chiesto un paio di volte, mentre invano cercava di prendere sonno tra le coperte.
S'era appena svegliata da un dormi-veglia, tiepido, leggermente imperlata di sudore.
Continuava a sentirsi inquieta.

In quegli ultimi strascichi di sogno in fase rem, aveva riconosciuto la barba folta di suo padre.
Era piccola, sette anni o poco più. Anni che ormai sfocano nella memoria sbiadita. 
Indossava un vestito bianco a righe blu, simile a quello che avevano messo a suo fratello.
C'era un prato. C'era Margareta Blanville, nella sua bellezza malinconica. Chiacchierava con altre signore e lei era stata lasciata a giocare su un prato, molto grande. Suo fratello, immobile e ben educato, sedeva al tavolo da the come "i grandi". Lei, scorrazzava, braccia al vento, rotolando senza freni lungo una piccola collina. I segni dell'erba sparsi sul vestitino di taffetà. Le mani piccole strette attorno ad un mucchio di fiori.
Geremia Parker la fissava da lontano, severo. -Abigail, non sporcare il vestito-, le aveva urlato, con voce tonante. Lei continuava a correre. Correre. Correre. 
-Prendimi, papà. Prendimi-. Si allontanava. Tanto piccola da sparire inghiottita da quell'enorme mucchio d'erba folta.
-Abigail, torna qui. Il vestito. Abigail-, non si mosse.
Lei cadde a terra come una foglia morta.

D'un tratto la barba di Geremia Parker, sembra quella di Huck Haggerty.
Il chimico le sorride, rigirando un dado dai numeri consumati tra le dita. -E' l'unica soluzione, Chris-.
Le avevano legato mani e piedi ad una sedia e lo guardava attraverso un vetro. C'era una porta, alla sua destra, ben aperta. Era cresciuta, ma indossava ancora il vestito di taffetà sporco d'erba di quel giorno. Sarebbe potuta sgusciare rotolando da un momento all'altro, ma non appena la coda dell'occhio cercava il profilo di quella scappatoia, quella svaniva. 
-Non hai scelta. Te l'avevo detto-.
Un sussurro. Haggerty è lì, su quella porta, pronto a sbatterla in faccia a lei.
All'improvviso Zoe Morrigan piange in un angolo, urlando come un'ossessa 
-Non portatela via! Non portatela via!-. Dei, urla forte. Con tutto il fiato che ha in gola.

C'è Jordan Fox, oltre il vetro, adesso. Lei e la sua fragile bellezza. Lei e il suo collare, il suo onore.
Le spinge addosso uno sguardo deluso, rancoroso -Una ribelle. Una farfalla scappata. Vergogna-.
Ha mani e piedi liberi, adesso, ma la bocca è stretta sotto il giogo di un foulard allacciato dietro alla nuca, da farle male. Jordan Fox ha un viso severo, ma è priva di collare: quello, adesso è attorno al collo di Chris -Non sei più libera di me, adesso, Farfalla-.
La bionda schiude le dita. Le ali di una farfalla morte battono gli ultimi due accenni di vitalità prima di abbandonarsi avvizzite sul palmo delle sue mani.

-Ti amo da morire, stupida- Laura Munos le sussurrava all'orecchio quelle parole, da dietro. 
Imbracciava un fucile.
Bella, nella sua divisa blu, di tanto in tanto le pareva di vederci dentro Sophia Mannfield.
Puntava il fucile contro il suo petto, all'altezza del cuore.

-Ti amo da morire, stupida-. 
Lo aveva ripetuto sorridendo, prima di sparare.


mercoledì 23 ottobre 2013

Skyplex Hall Point| Roadhouse| 14.50


Registrazione vocale attiva.

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Non ho ancora recuperato un foglio e una pena.
Ad ogni modo oggi quel figlio di un cane di Hyena m’ha portato a fare una passeggiata al Roadhouse, che è un locale che sta sullo Skyplex. Si, quello in cui le noccioline sanno di culo e ho incontrato quel tizio che diceva di essere un soldato troppo giovane. Proprio quello.
E’ lì che m’è venuta incontro questa cosetta piccolina tutta preoccupata per una feritina al braccio. 
Si. Okay. Sanguinavo da un paio d’ore e iniziava a girarmi la testa, ma non credo fosse poi qualcosa di grave. Lei non è un medico, comunque. E nemmeno un’infermiera (non c’ha il culo da infermiera. E nemmeno la faccia), è una chimica. Però la fasciatura è venuta su bene e la terrò per un po’. E’ graziosa.
E’ strano come la vita di botto ti toglie tutto e di botto ti restituisce qualcosa di altrettanto prezioso, quasi per farsi perdonare. Un Karma strano, ecco. Perdo un’amica… o meglio, quella che credevo tale e me ne faccio subito un’altra.
Oddio, avrei preferito infilarmi nelle sue mutande, ad esser sincera, ma lei è innamorata di un certo Haggerty.
Dovrò incontrarlo, questo Haggerty. Ha un nome che non mi piace. Che mi puzza di marcio. E non potrei lasciare quell’esserino tra le grinfie di una persona marcia dentro, ormai è fatta. Quindi prima che lei faccia qualsiasi cosa di cui poi magari pentirsi, è mio dovere da amica vegliare su di lei.
Abbiamo fatto il patto dello sputo, come in quell’holofilm in cui poi uno dei due ragazzini muore.
Magari poi mi rifila un palo nel culo com’è successo con Chayo, che ne so? 
Però io a Chayo le ho restituito il suo coltellino. Le ho fatto guidare la mia macchina di lusso e l’ho fatta dormire sul mio divano. E lei niente. Io non rimpiango nulla, come sempre.
Devo andarci piano, stavolta. Magari è il divano che non va bene. Magari è quello che porta sfiga. Insomma, è una personcina simpatica anche se sospetto sia affetta da qualche nevrosi e di tanto in tanto blaterava qualcosa circa delle “palle al centro”, poco chiaro.

Insomma, si. Si chiama Zoe e ha una fissa per le palle, ma non è male, come inizio.

Nulla si crea, nulla si distrugge. E niente cambia. Nemmeno io, che in fondo a quella speranza c’ero aggrappata ancora con le unghie e con i denti.


Tre punti. Una linea. Tre punti.
Non deludermi anche tu.
Non deludere anche lei.

<Un ronzio. Poi, il silenzio>

Spazio| Atlantis| 23.50 pm


Registrazione vocale attiva.

Loading…


Non ho una penna e non ho un foglio.
Credo di averli perduti insieme alla mia dignità, tanto per cambiare.
Geremia Parker, a questo punto, sorriderebbe d’amarezza e scuoterebbe il capo con rassegnazione, abbandonandomi al mio destino –come del resto, è accaduto-.
Eseguo questa registrazione vocale su un cortex pad a frequenza criptata, nella speranza che un giorno qualcuno possa ascoltarlo.
Anzi, a dire il vero lo faccio per me.
Inizio a gradire come mai la mia compagnia.
Saranno passate settimane… se non mesi. Sono tenuta prigioniera da una banda di pirati Spaziali capitanata da un certo Joe Black. Credo sia l’unico nome che conosco, insieme a quello di Chayo.. Petra, o come diavolo intende farsi chiamare.
Ah… e un certo “M.”, un operaio della sala macchine come me.
Come sono arrivata qui?
E’ una buffa storia, ma non credo di avere il tempo e nemmeno la voglia di raccontarla.
Succede quando capita di incontrare le persone sbagliate, nei momenti sbagliati. Succede quando sei tu, la persona sbagliata. Sempre.
Succede quando quelli come me smettono di far funzionare il cervello e iniziano a pensare con le ovaie.
Succede, insomma.

Alcuni si stupiscono del mio atteggiamento stoico difronte a questi accadimenti. Alcuni si chiedono come faccia a mantenere la calma anche difronte alla canna di una pistola puntata dritta in mezzo agli occhi.
A queste persone vorrei dire soltanto una cosa: provate voi a temere di perdere la vostra vita, quando la vostra vita non è niente. Niente. Un cumulo di aspettative distrutte. Un accumulo di debiti con la sorte. Un accumulo di buoni propositi puntualmente gettati nel cesso.
Provate voi, a temere qualcosa, quando sapete che il peggio che può capitarvi è di ritrovarvi finalmente in pace con voi stessi, in un luogo lontano, tre metri sotto terra e cibo per vermi, in un Aldilà in cui non riesco nemmeno a credere.
Provate voi a credere in qualcosa, quando non siete capaci di credere nemmeno in quello che siete e che valete.
Provate voi a temere la morte quando pensate di fare un favore a qualcuno, se vi toglieste dai piedi.
Provate voi ad avere coraggio, quando non c’è niente per cui valga la pena combattere.
Provateci. E capirete, allora, perché non me ne importa niente d’essere su questa nave di merda, circondata da gente di merda, che se sapesse quanto e quali tesori potrebbe ottenere, venderebbe cara la mia pelle. E la loro.
Capirete perché non m’importa se l’unica persona che potevo dire mia amica, mi ha abbandonata nel momento in cui più ne avevo bisogno, spingendomi addosso sguardi che non mi sarei potuta aspettare nemmeno dal peggio sconosciuto.
Capirete perché non mi stupisco. D’altronde si fa presto a dirsi “amici” quando non c’è niente da mettere in gioco, per quell’amicizia.
No? Utopie. Stronzate.
Qui non ci sono Santi e non si fanno i miracoli.
Lo diceva pure quel bastardo di Geremia Parker: “Se devi credere in qualcosa, Abigail, beh… fa almeno che quel qualcosa sia quotato in borsa”.

Capirete… quando ogni passo mosso nel desiderio di compiacere qualcuno, è un passo più vicino all’annichilimento personale. Quando ogni sforzo è nullo, vano, il semplice riavvolgersi di un nastro che ormai conosco fin troppo bene. Un copione che leggo e rileggo da anni, sulle labbra di chiunque incroci il mio sguardo.

Capirete perché mi chiedo, tutt’ora, alla luce di questo, per quale fottutissimo motivo dovrei alzare la voce? Dibattermi o ribellarmi. Discutere o incazzarmi. Piangere o indignarmi.
A quale, diabolico ed inutile scopo?

Capirete, perché nonostante questo, continuo imperterrita a farlo.
Con l’ultimo sputo di speranza e sangue nelle vene.
Come l’ultimo, merdoso, lucidissimo, logico –tristemente eppure valorosamente solo- sopravvissuto del mondo.

<Un ronzio. Poi, il silenzio.>

venerdì 11 ottobre 2013

Capital City| Motel | 03.27 a.m.

Come sono arrivata qui?
Respiro affannosamente dopo aver trattenuto il fiato in petto insieme ad uno sbotto nauseato che certamente m'avrebbe portato a sbrodolare un fiotto di vomito giù sul pavimento sudicio del Motel. 
La prima immagine che ho non appena riprendo conoscenza è quella patina di muffa che graffia il soffitto screpolato. C'è una luce al neon che fibrilla in modo fastidioso e il ronzio indiscreto di un paio di falene che gli sfarfallano attorno, come una danza d'ubriachi. Le osservo sotto le palpebre gonfie. Gli occhi lucidi e arrossati annebbiano e offuscano le distanze rendendo ovattata ogni sagoma, come in un sogno sotto effetto di morfina.
Come sono arrivata qui?
Devo avere bevuto. Un vago retrogusto amaro sporca il palato e un puzzo di fogna a cielo aperto tormenta le narici, insieme a quello ben più dolce del sesso. Solo adesso noto i pantaloni slacciati e la camicia assente; le coperte arruffate attorno ad un profilo morbido di donna. Scorro lo sguardo pigro, vagamente sorpreso, sulla curva burrosa dei fianchi fasciati nella stoffa. Non ricordo, ma non mi stupisco. Cerco solo di sporgere il viso quel poco che basta per scorgere quello di lei.
Come sono arrivata qui?
Continuo a chiederlo. Cerco indizi in quella stanza spoglia.
Una macchia marrone sporca la moquette. Le tende ingrigite dalla polvere sugli orli consumati, vecchi, usurati dal tempo, di un rosa pallido che una volta doveva essere squillante, sono appena socchiuse e non lasciano filtrare un filo di luce. Concludo che dev'essere notte fonda.
Non ho la forza di muovermi e nemmeno il coraggio di provarci. Gambe e braccia abbandonate mollemente in una stella scomposta sul copriletto e la bocca sa di donna e di profumo a buon mercato. Umetto le labbra, quasi servisse a far affiorare un ricordo. Socchiudo gli occhi.
Come sono arrivata qui?
Raccolgo ogni briciolo di forza rimasta in corpo per tirarmi in piedi, trascinandomi appresso la camicia bianca spiegazzata che mi premuro di rimettere addosso, abbottonandola alla ben'e meglio, con qualche bottone sfuggito alla sua asola sul ventre scavato. La punta delle dita passa distrattamente sulle costole sporgenti a saggiarne la consistenza, un po' doloranti. 
Solo adesso noto il graffio sulla mano.
I pantaloni slacciati pendono pigramente attorno ai fianchi, sul punto di scivolare sulle gambe, leggermente arricciati attorno ai piedi, ma non mi curo affatto di sollevare la zip. Gratto la testa distrattamente e osservo dall'alto la donna di burro. 
Ha bei capelli biondo cenere arruffati sul cuscino e un naso piccolo e adunco. 
Sbava un po' mentre dorme. 
Anche sforzandomi, mi rendo conto di non riuscire a ricordare il suo nome.
Come sono arrivata qui?
Le lascio una carezza lunga sulla pelle della coscia che sbuca fuori dal lenzuolo. E' morbida e calda e sa di buono, ma non so come si chiama. Nè ricordo di averle dedicato attenzioni o parole d'affetto. Non ricordo di averla amata e non ricordo di averla scopata, di averle prestato il rispetto che meriterebbe qualsiasi donna come lei. Un vuoto allo stomaco mi assale inevitabilmente: la consapevolezza d'essermi ancora una volta lasciata trasportare dagli eventi, anzichè domarli, controllarli, cercare di rigirarli a mio favore. 
Decido di pulirmi la coscienza abbandonando un mucchio di dollari alleati sul comodino di fianco al letto.
Scrivo poche frasi sul retro di uno di essi, facendo attenzione a non turbare il silenzio per non svegliare la bella sconosciuta.

- Senza dire niente me ne sono andata.
Senza sapere di nulla, senza alcun motivo per essere ricordata.
T'avessi vista guardare la neve d'Aprile, per strada.. forse.
T'avrei per sempre amata.



venerdì 13 settembre 2013

Corona | Villa Parker



-Mamma devo parlar…-
-Tesoro. Vieni, cara. E’ una fortuna che tu sia qui. Guarda: non ti pare che sia stato appeso storto?-

Interrotta bruscamente, ruotai lo sguardo pigro e disinteressato sul quadro appeso alla parete. Due ragazze con abiti orientali, su uno sfondo roseo d’alberi di ciliegio in fiore, è amabilmente intenta a conversare reggendo una tazzina di caffè. E’ chiaramente Primavera.

-Dovrei parlarti-
-Si, tesoro, lo faremo presto, promesso. Adesso, dimmi: è storto, non è così?-
-N-no… cioè… non mi pare. Mamma, è importante- insistetti.
-E questo non lo è? Santo cielo, la domestica. Che ore sono? Dovrebbe essere già arrivata. Miss Wellington arriverà tra meno d’un quarto d’ora.-
-Le sei. Mamma…- Tentai ancora una volta di attirare la sua attenzione.
-Le sei? E’ in ritardo, mi toccherà licenziarla.-

Sospirai. Sul punto di arrendermi, volsi lo sguardo a sbirciare al di fuori della finestra. Ero ancora precariamente sulla soglia del soggiorno, pronta a ruotare sui miei tacchi e lasciare mia madre al suo importantissimo e improrogabile da fare da casalinga. Non sono mai stata un tipo ostinato.

-Mamma, sono incinta.- Non era vero, ma cercavo una reazione.
-Tesoro. Il quadro. Che ne dirà miss Wellington di un quadro appeso così storto?-

Lei si sollevò sulle punte e sporse le braccia sottili con eleganza naturale a raddrizzare con dovizia il quadro, leggermente pendente sulla destra. Questione di centimetri. Di prospettive. Questione d’attenzione.
Il cane del vicino aveva ripreso ad abbaiare, fastidiosamente, in sottofondo.

-Mamma. Senti come abbaia quel dannato cane, la fuori, almeno? Bisognerebbe dirgli qualcosa.-
-Gli animali non se ne rendono conto, tesoro.-
-Già. Gli animali...-