domenica 27 ottobre 2013

Hall Point| Cella d'isolamento| 05.16 a.m


La cella di Hall Point è un buco spoglio, freddo. L'ennesimo in cui è stata costretta a soggiornare, contro la sua volontà. Nessuna finestra. Un neon, fastidiosissimo e accecante, perennemente acceso ad ogni ora del giorno e della notte. 
Che ore sono?- Se lo era chiesto un paio di volte, mentre invano cercava di prendere sonno tra le coperte.
S'era appena svegliata da un dormi-veglia, tiepido, leggermente imperlata di sudore.
Continuava a sentirsi inquieta.

In quegli ultimi strascichi di sogno in fase rem, aveva riconosciuto la barba folta di suo padre.
Era piccola, sette anni o poco più. Anni che ormai sfocano nella memoria sbiadita. 
Indossava un vestito bianco a righe blu, simile a quello che avevano messo a suo fratello.
C'era un prato. C'era Margareta Blanville, nella sua bellezza malinconica. Chiacchierava con altre signore e lei era stata lasciata a giocare su un prato, molto grande. Suo fratello, immobile e ben educato, sedeva al tavolo da the come "i grandi". Lei, scorrazzava, braccia al vento, rotolando senza freni lungo una piccola collina. I segni dell'erba sparsi sul vestitino di taffetà. Le mani piccole strette attorno ad un mucchio di fiori.
Geremia Parker la fissava da lontano, severo. -Abigail, non sporcare il vestito-, le aveva urlato, con voce tonante. Lei continuava a correre. Correre. Correre. 
-Prendimi, papà. Prendimi-. Si allontanava. Tanto piccola da sparire inghiottita da quell'enorme mucchio d'erba folta.
-Abigail, torna qui. Il vestito. Abigail-, non si mosse.
Lei cadde a terra come una foglia morta.

D'un tratto la barba di Geremia Parker, sembra quella di Huck Haggerty.
Il chimico le sorride, rigirando un dado dai numeri consumati tra le dita. -E' l'unica soluzione, Chris-.
Le avevano legato mani e piedi ad una sedia e lo guardava attraverso un vetro. C'era una porta, alla sua destra, ben aperta. Era cresciuta, ma indossava ancora il vestito di taffetà sporco d'erba di quel giorno. Sarebbe potuta sgusciare rotolando da un momento all'altro, ma non appena la coda dell'occhio cercava il profilo di quella scappatoia, quella svaniva. 
-Non hai scelta. Te l'avevo detto-.
Un sussurro. Haggerty è lì, su quella porta, pronto a sbatterla in faccia a lei.
All'improvviso Zoe Morrigan piange in un angolo, urlando come un'ossessa 
-Non portatela via! Non portatela via!-. Dei, urla forte. Con tutto il fiato che ha in gola.

C'è Jordan Fox, oltre il vetro, adesso. Lei e la sua fragile bellezza. Lei e il suo collare, il suo onore.
Le spinge addosso uno sguardo deluso, rancoroso -Una ribelle. Una farfalla scappata. Vergogna-.
Ha mani e piedi liberi, adesso, ma la bocca è stretta sotto il giogo di un foulard allacciato dietro alla nuca, da farle male. Jordan Fox ha un viso severo, ma è priva di collare: quello, adesso è attorno al collo di Chris -Non sei più libera di me, adesso, Farfalla-.
La bionda schiude le dita. Le ali di una farfalla morte battono gli ultimi due accenni di vitalità prima di abbandonarsi avvizzite sul palmo delle sue mani.

-Ti amo da morire, stupida- Laura Munos le sussurrava all'orecchio quelle parole, da dietro. 
Imbracciava un fucile.
Bella, nella sua divisa blu, di tanto in tanto le pareva di vederci dentro Sophia Mannfield.
Puntava il fucile contro il suo petto, all'altezza del cuore.

-Ti amo da morire, stupida-. 
Lo aveva ripetuto sorridendo, prima di sparare.


mercoledì 23 ottobre 2013

Skyplex Hall Point| Roadhouse| 14.50


Registrazione vocale attiva.

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Non ho ancora recuperato un foglio e una pena.
Ad ogni modo oggi quel figlio di un cane di Hyena m’ha portato a fare una passeggiata al Roadhouse, che è un locale che sta sullo Skyplex. Si, quello in cui le noccioline sanno di culo e ho incontrato quel tizio che diceva di essere un soldato troppo giovane. Proprio quello.
E’ lì che m’è venuta incontro questa cosetta piccolina tutta preoccupata per una feritina al braccio. 
Si. Okay. Sanguinavo da un paio d’ore e iniziava a girarmi la testa, ma non credo fosse poi qualcosa di grave. Lei non è un medico, comunque. E nemmeno un’infermiera (non c’ha il culo da infermiera. E nemmeno la faccia), è una chimica. Però la fasciatura è venuta su bene e la terrò per un po’. E’ graziosa.
E’ strano come la vita di botto ti toglie tutto e di botto ti restituisce qualcosa di altrettanto prezioso, quasi per farsi perdonare. Un Karma strano, ecco. Perdo un’amica… o meglio, quella che credevo tale e me ne faccio subito un’altra.
Oddio, avrei preferito infilarmi nelle sue mutande, ad esser sincera, ma lei è innamorata di un certo Haggerty.
Dovrò incontrarlo, questo Haggerty. Ha un nome che non mi piace. Che mi puzza di marcio. E non potrei lasciare quell’esserino tra le grinfie di una persona marcia dentro, ormai è fatta. Quindi prima che lei faccia qualsiasi cosa di cui poi magari pentirsi, è mio dovere da amica vegliare su di lei.
Abbiamo fatto il patto dello sputo, come in quell’holofilm in cui poi uno dei due ragazzini muore.
Magari poi mi rifila un palo nel culo com’è successo con Chayo, che ne so? 
Però io a Chayo le ho restituito il suo coltellino. Le ho fatto guidare la mia macchina di lusso e l’ho fatta dormire sul mio divano. E lei niente. Io non rimpiango nulla, come sempre.
Devo andarci piano, stavolta. Magari è il divano che non va bene. Magari è quello che porta sfiga. Insomma, è una personcina simpatica anche se sospetto sia affetta da qualche nevrosi e di tanto in tanto blaterava qualcosa circa delle “palle al centro”, poco chiaro.

Insomma, si. Si chiama Zoe e ha una fissa per le palle, ma non è male, come inizio.

Nulla si crea, nulla si distrugge. E niente cambia. Nemmeno io, che in fondo a quella speranza c’ero aggrappata ancora con le unghie e con i denti.


Tre punti. Una linea. Tre punti.
Non deludermi anche tu.
Non deludere anche lei.

<Un ronzio. Poi, il silenzio>

Spazio| Atlantis| 23.50 pm


Registrazione vocale attiva.

Loading…


Non ho una penna e non ho un foglio.
Credo di averli perduti insieme alla mia dignità, tanto per cambiare.
Geremia Parker, a questo punto, sorriderebbe d’amarezza e scuoterebbe il capo con rassegnazione, abbandonandomi al mio destino –come del resto, è accaduto-.
Eseguo questa registrazione vocale su un cortex pad a frequenza criptata, nella speranza che un giorno qualcuno possa ascoltarlo.
Anzi, a dire il vero lo faccio per me.
Inizio a gradire come mai la mia compagnia.
Saranno passate settimane… se non mesi. Sono tenuta prigioniera da una banda di pirati Spaziali capitanata da un certo Joe Black. Credo sia l’unico nome che conosco, insieme a quello di Chayo.. Petra, o come diavolo intende farsi chiamare.
Ah… e un certo “M.”, un operaio della sala macchine come me.
Come sono arrivata qui?
E’ una buffa storia, ma non credo di avere il tempo e nemmeno la voglia di raccontarla.
Succede quando capita di incontrare le persone sbagliate, nei momenti sbagliati. Succede quando sei tu, la persona sbagliata. Sempre.
Succede quando quelli come me smettono di far funzionare il cervello e iniziano a pensare con le ovaie.
Succede, insomma.

Alcuni si stupiscono del mio atteggiamento stoico difronte a questi accadimenti. Alcuni si chiedono come faccia a mantenere la calma anche difronte alla canna di una pistola puntata dritta in mezzo agli occhi.
A queste persone vorrei dire soltanto una cosa: provate voi a temere di perdere la vostra vita, quando la vostra vita non è niente. Niente. Un cumulo di aspettative distrutte. Un accumulo di debiti con la sorte. Un accumulo di buoni propositi puntualmente gettati nel cesso.
Provate voi, a temere qualcosa, quando sapete che il peggio che può capitarvi è di ritrovarvi finalmente in pace con voi stessi, in un luogo lontano, tre metri sotto terra e cibo per vermi, in un Aldilà in cui non riesco nemmeno a credere.
Provate voi a credere in qualcosa, quando non siete capaci di credere nemmeno in quello che siete e che valete.
Provate voi a temere la morte quando pensate di fare un favore a qualcuno, se vi toglieste dai piedi.
Provate voi ad avere coraggio, quando non c’è niente per cui valga la pena combattere.
Provateci. E capirete, allora, perché non me ne importa niente d’essere su questa nave di merda, circondata da gente di merda, che se sapesse quanto e quali tesori potrebbe ottenere, venderebbe cara la mia pelle. E la loro.
Capirete perché non m’importa se l’unica persona che potevo dire mia amica, mi ha abbandonata nel momento in cui più ne avevo bisogno, spingendomi addosso sguardi che non mi sarei potuta aspettare nemmeno dal peggio sconosciuto.
Capirete perché non mi stupisco. D’altronde si fa presto a dirsi “amici” quando non c’è niente da mettere in gioco, per quell’amicizia.
No? Utopie. Stronzate.
Qui non ci sono Santi e non si fanno i miracoli.
Lo diceva pure quel bastardo di Geremia Parker: “Se devi credere in qualcosa, Abigail, beh… fa almeno che quel qualcosa sia quotato in borsa”.

Capirete… quando ogni passo mosso nel desiderio di compiacere qualcuno, è un passo più vicino all’annichilimento personale. Quando ogni sforzo è nullo, vano, il semplice riavvolgersi di un nastro che ormai conosco fin troppo bene. Un copione che leggo e rileggo da anni, sulle labbra di chiunque incroci il mio sguardo.

Capirete perché mi chiedo, tutt’ora, alla luce di questo, per quale fottutissimo motivo dovrei alzare la voce? Dibattermi o ribellarmi. Discutere o incazzarmi. Piangere o indignarmi.
A quale, diabolico ed inutile scopo?

Capirete, perché nonostante questo, continuo imperterrita a farlo.
Con l’ultimo sputo di speranza e sangue nelle vene.
Come l’ultimo, merdoso, lucidissimo, logico –tristemente eppure valorosamente solo- sopravvissuto del mondo.

<Un ronzio. Poi, il silenzio.>

venerdì 11 ottobre 2013

Capital City| Motel | 03.27 a.m.

Come sono arrivata qui?
Respiro affannosamente dopo aver trattenuto il fiato in petto insieme ad uno sbotto nauseato che certamente m'avrebbe portato a sbrodolare un fiotto di vomito giù sul pavimento sudicio del Motel. 
La prima immagine che ho non appena riprendo conoscenza è quella patina di muffa che graffia il soffitto screpolato. C'è una luce al neon che fibrilla in modo fastidioso e il ronzio indiscreto di un paio di falene che gli sfarfallano attorno, come una danza d'ubriachi. Le osservo sotto le palpebre gonfie. Gli occhi lucidi e arrossati annebbiano e offuscano le distanze rendendo ovattata ogni sagoma, come in un sogno sotto effetto di morfina.
Come sono arrivata qui?
Devo avere bevuto. Un vago retrogusto amaro sporca il palato e un puzzo di fogna a cielo aperto tormenta le narici, insieme a quello ben più dolce del sesso. Solo adesso noto i pantaloni slacciati e la camicia assente; le coperte arruffate attorno ad un profilo morbido di donna. Scorro lo sguardo pigro, vagamente sorpreso, sulla curva burrosa dei fianchi fasciati nella stoffa. Non ricordo, ma non mi stupisco. Cerco solo di sporgere il viso quel poco che basta per scorgere quello di lei.
Come sono arrivata qui?
Continuo a chiederlo. Cerco indizi in quella stanza spoglia.
Una macchia marrone sporca la moquette. Le tende ingrigite dalla polvere sugli orli consumati, vecchi, usurati dal tempo, di un rosa pallido che una volta doveva essere squillante, sono appena socchiuse e non lasciano filtrare un filo di luce. Concludo che dev'essere notte fonda.
Non ho la forza di muovermi e nemmeno il coraggio di provarci. Gambe e braccia abbandonate mollemente in una stella scomposta sul copriletto e la bocca sa di donna e di profumo a buon mercato. Umetto le labbra, quasi servisse a far affiorare un ricordo. Socchiudo gli occhi.
Come sono arrivata qui?
Raccolgo ogni briciolo di forza rimasta in corpo per tirarmi in piedi, trascinandomi appresso la camicia bianca spiegazzata che mi premuro di rimettere addosso, abbottonandola alla ben'e meglio, con qualche bottone sfuggito alla sua asola sul ventre scavato. La punta delle dita passa distrattamente sulle costole sporgenti a saggiarne la consistenza, un po' doloranti. 
Solo adesso noto il graffio sulla mano.
I pantaloni slacciati pendono pigramente attorno ai fianchi, sul punto di scivolare sulle gambe, leggermente arricciati attorno ai piedi, ma non mi curo affatto di sollevare la zip. Gratto la testa distrattamente e osservo dall'alto la donna di burro. 
Ha bei capelli biondo cenere arruffati sul cuscino e un naso piccolo e adunco. 
Sbava un po' mentre dorme. 
Anche sforzandomi, mi rendo conto di non riuscire a ricordare il suo nome.
Come sono arrivata qui?
Le lascio una carezza lunga sulla pelle della coscia che sbuca fuori dal lenzuolo. E' morbida e calda e sa di buono, ma non so come si chiama. Nè ricordo di averle dedicato attenzioni o parole d'affetto. Non ricordo di averla amata e non ricordo di averla scopata, di averle prestato il rispetto che meriterebbe qualsiasi donna come lei. Un vuoto allo stomaco mi assale inevitabilmente: la consapevolezza d'essermi ancora una volta lasciata trasportare dagli eventi, anzichè domarli, controllarli, cercare di rigirarli a mio favore. 
Decido di pulirmi la coscienza abbandonando un mucchio di dollari alleati sul comodino di fianco al letto.
Scrivo poche frasi sul retro di uno di essi, facendo attenzione a non turbare il silenzio per non svegliare la bella sconosciuta.

- Senza dire niente me ne sono andata.
Senza sapere di nulla, senza alcun motivo per essere ricordata.
T'avessi vista guardare la neve d'Aprile, per strada.. forse.
T'avrei per sempre amata.